La prima
volta che vidi la neve avevo dieci anni.
Era l’alba del 25 dicembre di tanti anni fa, e io ero stato
sveglio forse per tutta la notte. Non mi era mai capitato di starmene da solo
in una cameretta, e l’assenza di altri respiri, e la presenza di quegli odori
per me sconosciuti, e perfino il buio, che sembrava avere un colore diverso da
quello cui ero abituato, mi terrorizzavano. Me ne stavo fermo fermo sotto quella sorta di sacco riempito di piume,
mentre le lacrime che avevo trattenuto per giorni e giorni mi rigavano le
guance. Ogni tanto la porta si apriva e allora bloccavo il respiro e
ricominciavo a respirare solo quando mia madre, dopo essersi chinata su di me e
avermi fatto una carezza sui capelli, usciva dalla stanza.
Mia madre. Ma allora non la associavo ancora alla parola
madre, quella donna con i capelli rossi apparsa qualche mese prima nella mia
vita. Madre, mama, per me era Ameena. Ma lei, come i miei due fratelli, come la
mia sorellina Irat, come babu, mio padre, erano stati spazzati via da un’onda
enorme, sei anni prima. E tanti altri, con loro. Di un intero villaggio ci
eravamo salvati in tre. E le
suore dell’orfanotrofio di Tangalle per sei anni mi avevano chiamato il piccolo
miracolato.
Dello
tsunami ricordavo niente. Della famiglia sì, ricordavo gli odori, sembrava mi
fossero rimasti dentro le narici, e da lì si espandessero dentro di me, per
confortarmi: l’odore di curry che usciva dalle pieghe del sari della mamma, e
quello di pesce essiccato che impregnava la pelle di mio padre, l’odore di
terra che si portavano sempre addosso i miei fratelli quando rientravano dopo i
giochi sulla riva del fiume che scorreva dietro la nostra casa. La nostra casa
fra le due acque: limacciosa quella del fiume, e con tutte le sfumature
dell’azzurro quella dell’oceano.
Ma quella
notte, la mia prima notte in quel posto così lontano, gli odori del cuore erano spariti,
sostituiti da altri, che erano acidi, senza nome, paurosi. Erano gli odori
delle cose sconosciute, come sconosciuto era l’odore dell’aereo che mi aveva
portato fino a lì, e prima ancora l’odore della stanza d’albergo di Colombo
dove avevo passato la mia ultima notte in Sri Lanka. La donna con i capelli
rossi e l’uomo che era con lei, il marito, anche loro avevano un odore che non
conoscevo. Estraneo a tutto quello che avevo vissuto fino a quel momento.
"Sei
un bambino fortunato", mi aveva detto suor Mary. "Questi signori vogliono che tu vada a vivere con loro. Ti vogliono come figlio,
diventerai il loro bambino. "
Ma in
quella notte, in quella notte che le suore mi avevano insegnato fosse la Notte Santa,
io non mi sentivo fortunato. Mi
mancavano i miei compagni, ragazzini senza famiglia come me, mi mancavano le
suore che avevano sostituito mia madre nel darmi affetto e rimproveri e che
come lei odoravano di curry. Mi mancava l’odore della mia terra. Forse, anche
se era un pensiero che data la mia giovane età non riuscivo a concretizzare,
non sapevo più chi ero.
Suor Mary
mi aveva insegnato qualche parola d’inglese: mamma, papà, buongiorno, buon
Natale…
Ma io, da
quando, due giorni prima, avevo lasciato l’orfanotrofio, non avevo più parlato.
Forse mi addormentai, alla fine di quella lunga notte.
Quando riaprii gli occhi una stranissima luce bianca stava schiarendo il buio
della stanza. E avvertii anche un silenzio particolare, come se tutto, intorno,
fosse avvolto da bende. Mi alzai e a piedi nudi mi diressi alla porta-finestra. Scostai le tende e…
Centinaia,
migliaia di piume bianche stavano scendendo dal cielo. Danzavano davanti ai
miei occhi, poi si posavano sugli alberi e sul vialetto del giardino, e sulle
aiuole, e sul muretto che separava il giardino dalla strada. Tutto era nascosto
sotto una coperta candida, e brillava, quella coperta, come se fosse intessuta
di piccole gemme di cristallo.
E io stavo
lì, con il naso schiacciato contro i vetri, e mi venne in mente la parola
miracolo, e pensai che mai avevo visto una cosa così bella. E sentii qualcosa,
dentro, che si allentava, un peso che usciva e uscendo mi rendeva leggero, mi
faceva ritornare il bambino che ero stato fino a qualche giorno prima. Aprii la
finestra. Fu allora che sentii l’odore. Un odore nuovo, anche quello, ma che
era fresco, come quello delle lenzuola stese nel cortile dell’orfanotrofio
quando c’era vento. Era un odore buono. Un odore del cuore. Era un buon odore.
Una mano mi
si posò sulla spalla. Una voce dolce mi disse:
"Vieni,
piccolo, non prendere freddo. "
Mi girai e,
" Buon Natale, mamma", dissi.
Sono passati trent’anni, da allora. Un’altra notte Santa, questa che mi vede
serenamente insonne.
Mia moglie
dorme tranquilla accanto a me. Nella stanza accanto nostro figlio sta
intessendo la notte di sogni.
Mancano
poche ore all’alba e poi sarà Natale. E io, come ogni anno, mi ritrovo a
pregare che mille piume bianche scendano dal cielo.