Si lo sò, tutti
gli italiani hanno un santo protettore…non avendo io (unico italiano) un santo
a cui rivolgermi è sempre stata mia abitudine fare domande a Moder Svea. Lei
con pazienza certosina mi ha sempre ascoltato, aiutandomi non poco per la mia
sopravvivenza nella sua terra. Giorni fa dopo una furibonda telefonata con
l`ufficio tasse le ho chiesto con modi poco ortodossi: "Sapresti spiegarmi come
mai dopo guasi mezzo secolo che abito nella tua terra ancora non ho capito una
beata mazza di te e del tuo popolo il quale prenderei volentieri a calci in culo
ogni volta che mi fa girare le balle…?" Lei con la pazienza tutta scandinava che
la distingue da sempre mi ha risposto: “Caro Franco, te l`ho spiegato 1000
volte ma tu sei troppo “testone” ed
ostinato per voler capire." Ed io di rimando: “Allora se non vuoi farlo per me
che sono un “gran capoccione” come dici tu fallo almeno per tutti quelli che “testoni” non sono e sognano di abitare nella tua terra per
poter vivere felici e cojonati (scusa Moder Svea! “Contenti...”) tutta la vita?"
Così Moder Svea iniziò a raccontare ancora una volta la sua fiaba. Che poi tanto
fiaba non è:
D’inverno, quando le lancette dell’orologio segnano le tre
del pomeriggio si accendono i lampioni e
la notte si avvicina, inesorabilmente. Questa lunga notte del nord che dura
tanto ed esercita sull’uomo inerme il suo fascino che, per quanto cinico sia non può sfuggire alla metafisica che caratterizza questa terra. E’ come se l’anima del Vichingo aleggiasse disperato nelle
tenebre, perché non trova risposta alla sua disfatta, né soddisfazione dai suoi
discendenti pacifici e tranquilli. Così, il forestiero, profano ed inesperto, sperimenta la forma sublime
ed assoluta del suo silenzio, in cui persino sentire il proprio cuore battere e
pensare diventa rumoroso. Questo silenzio che fa sì che l’uomo prenda
conoscenza della sua piccolezza di fronte all’immensità, e ai rumori sinistri dell’aurora boreale. La
solitudine del nord fa perdere il contatto con il resto del mondo e la sua
rumorosa realtà. Esistono
delle casette di legno tinte di rosso e di bianco con tendine che ornano le
finestre e con dei fiori sui davanzali sperdute nei boschi, sono isolati, eppur
vivi, a stretto contatto con la natura e con gli animali che le circondano. La mia Svezia sta lì, in disparte, perché ha scelto di
essere così. Guarda e vigila il vecchio continente. Eppure, secoli fa, anch’essa era una guerriera, aveva invaso
la Norvegia, la Finlandia, la Danimarca, la Lettonia, l’Estonia e una parte
della Germania. Imperatrice,
si vestiva di gloria. Le sue
guerre furono rare, ma quelle poche durarono anni.
La guerra
contro la Danimarca durò trent’anni. Fu così che si elesse Regina del Nord. In questo
paese regna sovrana la democrazia. E’
nel sangue del re e della regina. Gustav VI Adolf si chiama Bernardotte ed è discendente di un
generale di Napoleone; la regina, Silvia, era una hostess delle Olimpiade ed è
tedesca, vissuta in Brasile. Non era né
strano, né inconsueto, incontrare il nonno del re per le vie di Stoccolma in
bicicletta. Il vecchio
nonno amava l’archeologia e spesso è stato ospite in Italia nelle vicinanze di
Viterbo, dove amava scavare e scoprire i tesori delle tombe etrusche.
I ministri
svedesi non sono scortati, né ho mai visto macchine di servizio, usano i mezzi
pubblici o vanno a piedi. Non sto farneticando, né è fantasia, ma la pura e
semplice verità. E
democratico è anche il popolo. Non si sfregia dei titoli di dottori (anche se
laureati), almeno che non è un medico di professione, né esistono professori o
professorini. Sono,
siamo, tutti signori.

Il palazzo
reale non sovrasta nessun luogo, nessun muro di cinta né cancelli o
cancelletti, o qualsiasi barriera, che lo separi dalla gente comune. Esso è
situato nella “gamla stan” (città vecchia) e s’affaccia sul lago Mälaren, dove
d’inverno blocchi di ghiaccio sottili, per via delle correnti, scivolano
silenziosi e vengono rotti da un lento rompighiaccio. Questo è il
lago che d’estate si popola da cigni, papere e barche a vela di tutte le
dimensioni e colori. Nell’oscurità
dei pomeriggi invernali si possono intravedere le sagome delle chiese gotiche
protestanti i cui campanili, che sovrastano le case, hanno in cima l’eterno
gallo che sembra scrutare l’infinito. Stoccolma
si estende pigramente intorno al lago, su tanti isolotti che si ricollegano con
ponti e ponticelli. Ecco il significato del nome Stockholm: “stock” significa
tronco e “holm” significa isolotto, infatti, la parte vecchia della città, fu
costruita su dei tronchi enormi che sono immersi nelle acque profonde. La città
che d’inverno dormicchia, d’estate si risveglia: tornano gli uccelli emigratori, rifioriscono i tulipani, le rose selvatiche, i mughetti, le viole e
gli alberi si vestono di verde.
I laghi
sembrano riprendere vita dalle barche traghetti che scivolano silenziosamente
nei canali stretti, costeggiati da alberi che con i loro lunghi rami sembrano
salutare i marinai provetti.
Stoccolma è
una bomboniera, dove d’inverno il silenzio fa da re e la solitudine fa da
regina, ma che d’estate si colora di turisti variopinti e gli svedesi ritornano
a sorridere. Fin’ora vi
ho descritto un paese da favola, ma il tempo delle favole è passato da un
pezzo. Un paese troppo perfetto per essere reale. Mi è costato un po’ di fatica scrivere questa ultima parte, perché
io mi domando come faccio a mostrare le parti deboli di un paese che amo,
perché sono figlia, nata dalle sue viscere, ma la mia Svezia vuole essere
quella che è stata per me, senza finzioni o fantasie.
Ci saranno
altre “Svezie” per altri occhi e cuori, per altre esperienze diverse dalle mie.
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Ad ognuno la sua verità. Questa è la mia.
Difficile è
spiegare a voi italiani quando i bambini, ancora piccoli da scuola elementari,
portano le chiavi di casa attaccate al collo da un laccio. Tornano a casa e non
trovano nessuno, perché i genitori stanno al lavoro. Devono fare tutto da soli.
Crescono fin troppo in fretta, così come i figli d’Italia crescono con
“ritardo”. E ancor più difficile è spiegare che questi figli svedesi in età
dell’adolescenza escono di casa e vanno a vivere da soli. Senza il
sostentamento dei genitori. Molti
sono figli di genitori divorziati,
cresciuti con uno o due “papà” (o mamme) diversi dai propri. Figli del divorzio, perché se è
facile sposarsi in Svezia è altrettanto facile divorziare: 6 mesi ed è fatta.
Almeno così era ai miei tempi. Le coppie
preferiscono convivere, perché il valore della famiglia è diverso da quella
italiana. Come faccio io a spiegarvi del potere degli assistenti
sociale, forte più di quello dei genitori stessi. Vero è che l’intenzione è per
il bene del bambino, ma come faccio a spiegare a voi queste testuali parole:
“Il padre naturale è soltanto un papà biologico, lo Stato provvederà a tuo
figlio”. Parole, queste,
pronunciate da un assistente sociale ad un genitore preoccupato per la sorte di
suo figlio. Questa famosa e perfetta assistenza sociale svedese, che guai se
non ci fosse, però in qualche modo produce solitudine ed abbandono da parte dei
parenti dell’assistito. Conosco anziani che non vedono né sentono per telefono
i propri parenti da anni, muoiono in casa e lo si scopre dopo giorni e giorni,
perché nessuno li aveva cercati. Rimangono le lunghe e silenziose
passeggiate solitarie di chi ormai ha vissuto. Raramente, ho visto dei nipoti accompagnare i nonni nel
parco. Come faccio io a spiegare i sentimenti che suscitavano in me, già negli
anni sessanta, quando mi trovavo di fronte a degli enormi cartelloni per
strada, dove erano stampati i nomi delle giovani vittime della droga? Giovani
che erano disposti a qualsiasi cosa pure di ricevere un po’ di illusioni
pericolose; giovani abbandonati a se stessi, che già vivono di assistenza sociale
e disillusi dalla vita, perché dalla vita sono stati sfruttati, con la
benedizione di un benessere che porta il cognome di un malessere sociale. E,
infine, cosa dirvi dell’alto tasso di suicidi degli anni passati, del profondo
mal di vivere?
Questa, signori miei, è l’altra faccia del sogno Scandinavo,
che si chiama incubo. Il paradiso
che non esiste su questa terra, appartiene al cielo. Forse.
(by piccola rondine för nonno franco)
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