La fiaba di Moder Svea


Si lo sò, tutti gli italiani hanno un santo protettore…non avendo io (unico italiano) un santo a cui rivolgermi è sempre stata mia abitudine fare domande a Moder Svea. Lei con pazienza certosina mi ha sempre ascoltato, aiutandomi non poco per la mia sopravvivenza nella sua terra. Giorni fa dopo una furibonda telefonata con l`ufficio tasse le ho chiesto con modi poco ortodossi: "Sapresti spiegarmi come mai dopo guasi mezzo secolo che abito nella tua terra ancora non ho capito una beata mazza di te e del tuo popolo il quale prenderei volentieri a calci in culo ogni volta che mi fa girare le balle…?" Lei con la pazienza tutta scandinava che la distingue da sempre mi ha risposto: “Caro Franco, te l`ho spiegato 1000 volte ma tu sei troppo “testone”  ed ostinato per voler capire." Ed io di rimando: “Allora se non vuoi farlo per me che sono un “gran capoccione” come dici tu fallo almeno per tutti quelli che “testoni”  non sono e sognano di abitare nella tua terra per poter vivere felici e cojonati (scusa Moder Svea! “Contenti...”) tutta la vita?"
Così Moder Svea iniziò a raccontare ancora una volta la sua fiaba. Che poi tanto fiaba non è:
Esiste un paese dove gli abeti e le betulle si specchiano nei laghi ghiacciati; dove il sole non brucia, ma illumina la notte per molti mesi dell’anno e per altri mesi va in letargo, come l’orso bruno e i tanti animali, piccoli e grandi, che popolano le sue foreste. La Svezia è una signora dai capelli di grano, che cambia vestito ogni stagione; d’estate indossa il blù dei suoi laghi fatati, d’inverno si veste di grigio, come il cielo spietato di questa stagione. Il suo profumo è quello dei mille fiori nordici colorati che inebriano la mente; il muschio incorona la sua testa e tutto di lei sa di freschezza. Essa è madre che provvede ai piccoli e agli anziani, non abbandona nessuno e vigila, attenta, sulle frontiere.
D’inverno, quando le lancette dell’orologio segnano le tre del pomeriggio si accendono i lampioni e la notte si avvicina, inesorabilmente. Questa lunga notte del nord che dura tanto ed esercita sull’uomo inerme il suo fascino che, per quanto cinico sia non può sfuggire alla metafisica che caratterizza questa terra. E’ come se l’anima del Vichingo aleggiasse disperato nelle tenebre, perché non trova risposta alla sua disfatta, né soddisfazione dai suoi discendenti pacifici e tranquilli. Così, il forestiero, profano ed inesperto, sperimenta la forma sublime ed assoluta del suo silenzio, in cui persino sentire il proprio cuore battere e pensare diventa rumoroso. Questo silenzio che fa sì che l’uomo prenda conoscenza della sua piccolezza di fronte all’immensità, e ai rumori sinistri  dell’aurora boreale. La solitudine del nord fa perdere il contatto con il resto del mondo e la sua rumorosa realtà. Esistono delle casette di legno tinte di rosso e di bianco con tendine che ornano le finestre e con dei fiori sui davanzali sperdute nei boschi, sono isolati, eppur vivi, a stretto contatto con la natura e con gli animali che le circondano. La mia Svezia sta lì, in disparte, perché ha scelto di essere così. Guarda e vigila il vecchio continente. Eppure, secoli fa, anch’essa era una guerriera, aveva invaso la Norvegia, la Finlandia, la Danimarca, la Lettonia, l’Estonia e una parte della Germania. Imperatrice, si vestiva di gloria. Le sue guerre furono rare, ma quelle poche durarono anni.
La guerra contro la Danimarca durò trent’anni. Fu così che si elesse Regina del Nord. In questo paese  regna sovrana la democrazia. E’ nel sangue del re e della regina. Gustav VI Adolf si chiama Bernardotte ed è discendente di un generale di Napoleone; la regina, Silvia, era una hostess delle Olimpiade ed è tedesca, vissuta in Brasile. Non era né strano, né inconsueto, incontrare il nonno del re per le vie di Stoccolma in bicicletta. Il vecchio nonno amava l’archeologia e spesso è stato ospite in Italia nelle vicinanze di Viterbo, dove amava scavare e scoprire i tesori delle tombe etrusche.
I ministri svedesi non sono scortati, né ho mai visto macchine di servizio, usano i mezzi pubblici o vanno a piedi. Non sto farneticando, né è fantasia, ma la pura e semplice verità. E democratico è anche il popolo. Non si sfregia dei titoli di dottori (anche se laureati), almeno che non è un medico di professione, né esistono professori o professorini. Sono, siamo, tutti signori.
Il palazzo reale non sovrasta nessun luogo, nessun muro di cinta né cancelli o cancelletti, o qualsiasi barriera, che lo separi dalla gente comune. Esso è situato nella “gamla stan” (città vecchia) e s’affaccia sul lago Mälaren, dove d’inverno blocchi di ghiaccio sottili, per via delle correnti, scivolano silenziosi e vengono rotti da un lento rompighiaccio. Questo è il lago che d’estate si popola da cigni, papere e barche a vela di tutte le dimensioni e colori. Nell’oscurità dei pomeriggi invernali si possono intravedere le sagome delle chiese gotiche protestanti i cui campanili, che sovrastano le case, hanno in cima l’eterno gallo che sembra scrutare l’infinito. Stoccolma si estende pigramente intorno al lago, su tanti isolotti che si ricollegano con ponti e ponticelli. Ecco il significato del nome Stockholm: “stock” significa tronco e “holm” significa isolotto, infatti, la parte vecchia della città, fu costruita su dei tronchi enormi che sono immersi nelle acque profonde. La città che d’inverno dormicchia, d’estate si risveglia: tornano gli uccelli emigratori, rifioriscono i tulipani, le rose selvatiche, i mughetti, le viole e gli alberi si vestono di verde.
I laghi sembrano riprendere vita dalle barche traghetti che scivolano silenziosamente nei canali stretti, costeggiati da alberi che con i loro lunghi rami sembrano salutare i marinai provetti.
Stoccolma è una bomboniera, dove d’inverno il silenzio fa da re e la solitudine fa da regina, ma che d’estate si colora di turisti variopinti e gli svedesi ritornano a  sorridere. Fin’ora vi ho descritto un paese da favola, ma il tempo delle favole è passato da un pezzo. Un paese troppo perfetto per essere reale. Mi è costato un po’ di  fatica scrivere questa ultima parte, perché io mi domando come faccio a mostrare le parti deboli di un paese che amo, perché sono figlia, nata dalle sue viscere, ma la mia Svezia vuole essere quella che è stata per me, senza finzioni o fantasie.
Ci saranno altre “Svezie” per altri occhi e cuori, per altre esperienze diverse dalle mie.
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Ad ognuno la sua verità. Questa è la mia.
Difficile è spiegare a voi italiani quando i bambini, ancora piccoli da scuola elementari, portano le chiavi di casa attaccate al collo da un laccio. Tornano a casa e non trovano nessuno, perché i genitori stanno al lavoro. Devono fare tutto da soli. Crescono fin troppo in fretta, così come i figli d’Italia crescono con “ritardo”. E ancor più difficile è spiegare che questi figli svedesi in età dell’adolescenza escono di casa e vanno a vivere da soli. Senza il sostentamento dei genitori. Molti sono  figli di genitori divorziati, cresciuti con uno o due “papà” (o mamme) diversi dai  propri. Figli del divorzio, perché se è facile sposarsi in Svezia è altrettanto facile divorziare: 6 mesi ed è fatta. Almeno così era ai miei tempi. Le coppie preferiscono convivere, perché il valore della famiglia è diverso da quella italiana. Come faccio io a spiegarvi del potere degli assistenti sociale, forte più di quello dei genitori stessi. Vero è che l’intenzione è per il bene del bambino, ma come faccio a spiegare a voi queste testuali parole: “Il padre naturale è soltanto un papà biologico, lo Stato provvederà a tuo figlio”. Parole, queste, pronunciate da un assistente sociale ad un genitore preoccupato per la sorte di suo figlio. Questa famosa e perfetta assistenza sociale svedese, che guai se non ci fosse, però in qualche modo produce solitudine ed abbandono da parte dei parenti dell’assistito. Conosco anziani che non vedono né sentono per telefono i propri parenti da anni, muoiono in casa e lo si scopre dopo giorni e giorni, perché nessuno li aveva cercati. Rimangono le lunghe e silenziose passeggiate solitarie di chi ormai ha vissuto. Raramente, ho visto dei nipoti accompagnare i nonni nel parco. Come faccio io a spiegare i sentimenti che suscitavano in me, già negli anni sessanta, quando mi trovavo di fronte a degli enormi cartelloni per strada, dove erano stampati i nomi delle giovani vittime della droga? Giovani che erano disposti a qualsiasi cosa pure di ricevere un po’ di illusioni pericolose; giovani abbandonati a se stessi, che già vivono di assistenza sociale e disillusi dalla vita, perché dalla vita sono stati sfruttati, con la benedizione di un benessere che porta il cognome di un malessere sociale. E, infine, cosa dirvi dell’alto tasso di suicidi degli anni passati, del profondo mal di vivere?
Questa, signori miei, è l’altra faccia del sogno Scandinavo, che si chiama incubo. Il paradiso che non esiste su questa terra, appartiene al cielo. Forse.
(by piccola rondine för nonno franco)
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Sono andato, tornato, ripartito.

Sono andato, tornato, ripartito.
E così ora sono qui, in un’altra fase della Vita. Abito vicino al ponte Västerbron, a forma di arpa. E’ bellissimo. La mia gratitudine è a scoppio molto ritardato. Faccio in tempo a dimenticare gli atti, i nomi e i volti prima di aver capito quando dovessi ad ognuno.

Mettiamo le cose in chiaro

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