"La memoria
sceglie un testo particolare e io ignoro come chiunque altro il perché. E perché
non il resto? Tutto il resto che ho senza dubbio dimenticato? Lo spazio tra i
caratteri, dice Wittgenstein, è parte di ciò che da ai caratteri un senso. Se
qualcuno ricordasse tutto, non gli rimarrebbe nessun presente in cui vivere. O
vivrebbe in un eterno presente? Ho la
strana sensazione che la memoria scelga per proprio conto. E mi domando che
cos’è è che vuole. Ricordo la
signora Sorgedahl così bene. Pensate! Nei cinquant’anni che sono trascorsi, non
ho mai fatto stranamente nessun tentativo di rintracciare la signora Sorgedahl,
non ho neanche cercato il suo nome nell’elenco del telefono."
Supponiamo
allo stesso modo che il tempo sia una somma imperfetta di ricordi e cicatrici:
un luogo remoto dove il possibile non si avvera mai, e l'assurdo trova sempre
una via per manifestarsi.
Il tempo attraverso il quale è passato un professore di filosofia, in pensione dopo una vita spesa ad Oxford, è un tempo affollato: camminano fianco a fianco, affacciandosi sul bordo della memoria, i vivi, i morti, i sopravvissuti. Dal placido ritiro inglese il professore torna con la forza della memoria alla nativa Svezia, al piccolo paese di Västerås, dove ancora, come nel 1954, lo attendono le bianche braccia della signora Sorgedahl: traguardo inaspettato, desiderato, la tanto attesa lezione su delizia e croce dell'abbandono.
Prima di raccontarla, però, ad un invisibile uditorio, il
vecchio professore gioca a scacchi con il passato (per la morte ci sarà un
altro, diverso tempo) snocciola citazioni e cammina all'indietro, gambero
d'acqua dolce: tutto per capire che cosa l'abbia fortuitamente portato
nell'abbraccio accogliente di una donna affascinante ed annoiata. Per capire,
in fondo, chi è stato, chi è ora.
Rovistando nell'affollato, impolverato baule del passato l'uomo trova i resti di una giovinezza trascorsa nel cono d'ombra delle scoperte: bruciano, ieri come oggi, i baci dati alla figlia del Fonditore, primo, acerbo amore; suonano sempre astrusi i racconti della madre distratta; non sono terminate le discussioni di un improvvisato club filosofico nel locale caldaia. Ogni attimo, ogni capitolo, testimoniano l'adolescenza dell'anziano, indizi dell'adulto che sarebbe poi diventato. Fino alla prova ultima, assaggio di piacere e passaggio obbligato verso la “terra dei grandi”: “Mi sembrava come se realmente avessi ricevuto, alla fine, una risposta alla domanda se esistevo”
Il tempo attraverso il quale è passato un professore di filosofia, in pensione dopo una vita spesa ad Oxford, è un tempo affollato: camminano fianco a fianco, affacciandosi sul bordo della memoria, i vivi, i morti, i sopravvissuti. Dal placido ritiro inglese il professore torna con la forza della memoria alla nativa Svezia, al piccolo paese di Västerås, dove ancora, come nel 1954, lo attendono le bianche braccia della signora Sorgedahl: traguardo inaspettato, desiderato, la tanto attesa lezione su delizia e croce dell'abbandono.
Rovistando nell'affollato, impolverato baule del passato l'uomo trova i resti di una giovinezza trascorsa nel cono d'ombra delle scoperte: bruciano, ieri come oggi, i baci dati alla figlia del Fonditore, primo, acerbo amore; suonano sempre astrusi i racconti della madre distratta; non sono terminate le discussioni di un improvvisato club filosofico nel locale caldaia. Ogni attimo, ogni capitolo, testimoniano l'adolescenza dell'anziano, indizi dell'adulto che sarebbe poi diventato. Fino alla prova ultima, assaggio di piacere e passaggio obbligato verso la “terra dei grandi”: “Mi sembrava come se realmente avessi ricevuto, alla fine, una risposta alla domanda se esistevo”
Le bianche
braccia della signora Sorgedahl: ovvero la Svezia che (per fortuna) non ti
aspetti, lontana chilometri dai luoghi comuni sui “generi”. Perché in questo
romanzo di Lars Gustafsson, filosofo, matematico, tra i più tradotti scrittori
scandinavi, non c'è nessun cadavere a cui rendere giustizia, nessun
investigatore dalla tormentata vita affettiva: perfino l'imperitura neve lascia
il passo ad un'incredibile e memorabile grandinata estiva. Qui c'è solo il
silenzio, un costante ribollir di passioni sotto il gelo che tutto copre: un
velo sottile preserva dal caos un'idea di continua ricerca di sé, cerchio
magico che si costruisce e chiude intorno al protagonista.
Le “bianche braccia”
del titolo sono dunque solo un pretesto: d'amore, certo, emozione violenta ed
irripetibile, ma pur sempre un escamotage grazie al quale il vecchio professore
si mette sulle tracce delle orme lasciate in anni di cammino, finanche i segni
delle cadute, delle deviazioni. Gustafsson ha posto dunque l'arte della
riflessione al centro di questo romanzo “proustiano”, intriso di scienza e
filosofia: è l'idea del tempo che lo affascina, il suo essere materia sfuggente
e concreta, quel susseguirsi di stagioni che, smontate e analizzate, permettono
al professore di rileggere il presente sotto una nuova luce. Il fluire degli
anni, mescolato alla corrente dello scibile umano, assume a volte i caratteri del
sogno, o della più assurda allucinazione: all'anziano intellettuale, come a
tutti noi, resta solo la possibilità di cogliere aspetti separati, momenti
isolati, esperienze sbiadite, istantanee malamente cucite insieme dal filo
rosso dell'“io” per definire i confini dell'identità. A metà strada tra
testamento letterario e memoir autobiografico,
Le bianche
braccia della signora Sorgedahl rifulge della perfetta bellezza delle cose
perdute, senza macchie, strappi: e si concede poco a poco, come una donna sensuale
incerta se obbedire ad un istinto per sempre giovane.
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